Da tempo in questa pandemia si parla di Big Quit o Great Resignation un fenomeno che sta colpendo il mondo del lavoro con statistiche da record. Si tratta di un significativo e anomalo aumento delle dimissioni, rilevato dapprima negli Stati Uniti e di cui iniziamo ad avere qualche segnale anche in Europa. L’Italia non fa eccezione. In poche parole, sempre più persone stanno lasciando il proprio lavoro, alla ricerca di una collocazione più adeguata alle proprie competenze ed aspettative, anche non necessariamente meglio retribuita. Lo scopo è sfuggire al burnout, ovvero allo sfinimento psico-fisico che colpisce i lavoratori, ai cali di morale ed ai sentimenti di disconnessione dai colleghi, dalla famiglia e dagli amici.
Ci sono molte ragioni per questo fenomeno psicologico e sociale non facile da decifrare e da interpretare anche se alcune ipotesi sono state fatte.
Non è solo conseguenza della pandemia, della retribuzione o dell’intensità dei ritmi lavorativi, ma è anche il risultato di una profonda riflessione delle persone che oggi non sono più in grado di vedere il senso della propria esistenza in linea con i propri valori. Molti si sentono in stallo ed hanno semplicemente bisogno di un cambiamento, altri sentono il bisogno di rendere la propria esistenza degna di essere vissuta.
Per tutta la vita, si inseguono titoli, promozioni e riconoscimenti che potrebbero non arrivare mai o non avere senso se occorre poi adattare la propria realtà alle necessità imposte dal lavoro. A molti capita di tornare a casa, dopo dodici ore di lavoro, per rendersi conto che non è “rimasto” molto da vivere in quella giornata.
E da questa prospettiva, in cui la persona vive bloccata da regole, norme e doveri, dallo stare al suo posto senza nessuna possibilità di cambiare le cose, in una condizione di sopportare il peso di una di vita in cui ogni valore è caduto, che la porta ad accettare l’anonimato all’interno dell’organizzazione in cui offre il suo lavoro, che diventa fisiologico aprirsi per cercare di capire come uscire da quella condizione che lo schiaccia per ridefinire le sue priorità di vita, per riprendere in mano il suo destino e rimodulare scelte, spazi e desideri.
E mentre molti leader e manager cercano risposte e spendono tutte le loro energie nel tentativo di trattenere i talenti nella propria organizzazione, pochi stanno realmente esaminando le ragioni alla base di questo esodo di massa.
Alcuni studi, ci dicono che le persone sono soddisfatte del proprio lavoro se è complesso piuttosto che semplice, vario piuttosto che ripetitivo, non sottoposto a rigido controllo da parte di altri (autogestione del lavoro Kohn, 1980). I dati suggeriscono che i lavori in cui bisogna compiere molte scelte e prendere decisioni autonome sono meno stressanti, anche quando implicano un maggiore impegno intellettivo.
La pratica e i dati a supporto, come uno studio di Gallup, dimostrano che in Italia solo il 5% dei professionisti (il 10% nell’area Ocse) è contento del proprio lavoro, nonostante la stabilità, un buono stipendio percepito e i numerosi benefit a disposizione. Il problema, al di là dell’aspetto economico, è relativo alla sfera della realizzazione personale, alla condivisione di senso, al progetto, alla qualità delle relazioni sociali, etc… I migliori talenti chiedono un equilibrio diverso tra il lavoro e il resto della vita.
Fonti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ci dicono che in Italia sono state 484mila le dimissioni volontarie dal lavoro, su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. Il 37% in più rispetto al trimestre 2021 precedente, l’85% in più rispetto allo stesso periodo del 2020.
E dunque, contrariamente alla credenza popolare degli italiani secondo cui è impossibile lasciare un lavoro sicuro, in molti hanno deciso di lasciare il vecchio lavoro senza avere, in molti casi, neppure un’alternativa.
Un fenomeno che mette a nudo l’ipocrisia delle organizzazioni alle prese con il cambiamento di una società liquida e precaria. E mentre si parla di sostenibilità, di investimenti, di talenti e del dotarsi di nuove skills, alcune aziende agiscono al contrario, riducendo i costi, tagliando teste e assumendo stagisti sottopagati.
Questo modus operandi delle aziende, duro a morire, non fa altro che alimentare la voglia delle persone di uscire dall’anonimato e dal vuoto che tutto divora.
E così, accanto alla ricerca di senso, cresce sempre di più una visione nichilista autodistruttiva per cui nessun lavoro, in fondo, ha significato.
Chi lascia il posto di lavoro dunque, dà sfogo ad un conflitto interiore, che vede nell’accettare o nel rivoluzionare tutto, l’unica soluzione possibile. Ed ecco che il “Big Quit” diventa un dire sì alla vita, un rifiuto del conformismo aziendale che impone come verità assolute, banali menzogne utilitaristiche, uno stimolo per costruire nuovi orizzonti e, paradossalmente, la non certezza diventa vita, una sollecitazione ad andare oltre nella ricerca della vera realizzazione personale e professionale.
Ed ecco che queste persone che “lasciano il lavoro” scoprono in loro la scintilla che li trasforma da vittime passive in creatori ed artefici della loro vita, mentre allo stesso tempo, le organizzazioni si trovano ad affrontare la più grande crisi di talenti dalla recessione del 2008 ad oggi. Ma questa volta le cose sono diverse: le persone non sono più in competizione per il lavoro sono le aziende ad essere in competizione per le persone.
Secondo un sondaggio di Microsoft, il 41% della forza lavoro globale sta pensando di dimettersi dal proprio ruolo attuale e Monster, riporta che il 95% dei lavoratori sta considerando un cambio di lavoro.
Qualunque sia la ragione, le aziende stanno sperimentando uno tsunami di turnover e dovrebbero prepararsi ad un periodo di continue dimissioni mentre i dipendenti sono impegnati a considerare le diverse opzioni.
A fronte di questo scenario, occorre che leader, manager, imprenditori e chiunque altro abbia un ruolo di riferimento in azienda, faccia uno sforzo reale per cambiare le cose in modo tale da trattenere le persone, il vero ed unico patrimonio dell’impresa. È importante fare questa azione senza cadere nei soliti luoghi comuni sul mantenimento dei talenti e concentrare invece gli sforzi sugli argomenti che possono fare davvero la differenza, come ad esempio la cultura interna all’impresa.
COME GUARDARE TUTTO CIÒ IN PROSPETTIVA.
In questa riflessione imposta, il Big Quit assume un significato preciso che può portare le organizzazioni a confrontarsi con le sue persone per avviare un cambio di rotta, ragionando su ciò che possono concretamente fare per i propri talenti, dando valore a ciò che questi ultimi possono offrire in cambio.
ELIMINARE IL CONCETTO: PUOI TRATTENERE I TALENTI SEMPLICEMENTE OFFRENDO PIÙ SOLDI O UNA PROMOZIONE.
Anche se una promozione o un aumento di stipendio potrebbe inizialmente convincere una persona a trattenersi per qualche altro mese, non è detto che essa decida di restare più a lungo. Spesso, chi sta pensando di andarsene, vuole più del semplice denaro. Probabilmente cerca l’opportunità di fare qualcosa che conta, per lui. Secondo HBR, nove persone su dieci, piuttosto che ricevere un aumento di stipendio, preferirebbero avere un leader che sia una guida, che si preoccupi della loro condizione e che li aiuti a trovare significato e successo nel lavoro. Anche Flessibilità e worklife balance verrebbero molto apprezzati al fine di aumentare la qualità della vita e migliorare l’equilibrio tra tempo trascorso al lavoro e tempo dedicato alla famiglia e alle relazioni sociali.
EVITARE DI PENSARE: L’OBIETTIVO È QUELLO DI TRATTENERE I TALENTI IL PIÙ A LUNGO POSSIBILE.
In un recente sondaggio di Monster, è emerso che l’80% degli intervistati non crede che il loro attuale datore di lavoro offra opportunità di crescita. Certo, non sempre le opportunità di crescita sono disponibili, ma se si promuovesse una cultura di crescita e sviluppo, con l’offerta di migliori strumenti per fare il proprio lavoro in modo innovativo, la condizione andrebbe a migliorare. Un cambiamento nei processi, ad esempio, o l’integrazione di tecnologie esponenziali, renderebbe il lavoro più professionalizzante, meno ripetitivo, frustrante e gravoso. Uno dei bisogni umani più sentiti nel tempo e di cui si è avuto sempre riscontro, è lo sviluppo. In un sondaggio di Gallup nel giugno 2021, si è scoperto che in Amazon il 57% dei lavoratori statunitensi vuole aggiornare le proprie competenze e il 48% considererebbe di cambiare lavoro per poterlo fare.
NON FERMARSI AL: QUANDO I DIPENDENTI SE NE VANNO, È PERCHÉ NON SONO PIÙ FELICI.
Sì, alcuni lavoratori si dimettono perché non sono più motivati e non trovano gioia nel loro attuale ruolo o posto di lavoro, ma questo non è vero per tutti. A volte c’è un’opportunità per migliorare le cose. Invece di alzare un muro, sarebbe utile creare un ambiente sicuro dove poter sostenere coloro che stanno pensando di lasciare, sia attraverso conversazioni con i leader, sessioni di ascolto o sondaggi sulla motivazione. Avere un dialogo aperto e onesto per capire cosa apprezzano le persone, di cosa hanno bisogno per sentirsi ingaggiati sul lavoro, cosa potrebbero cercare nel loro prossimo ruolo e se si può offrire loro questo, darebbe un segnale di interessamento verso le risorse umane facendole sentire apprezzate e al centro della cultura aziendale di cui fanno parte.
Evitare il “Big Quit” deve essere una delle priorità nel mondo dell’impresa per non disperdere il patrimonio che risiede nelle proprie umane risorse, ma per poterlo fare bisogna conoscere quello che è il pensiero ed il desiderio di chi si appresta a lasciare.
Individuare cosa si nasconde dietro la voglia di cambiamento è il primo passo per mettere freno alla grande fuga di talenti, anche offrire nuove possibilità in termini di crescita e sviluppo puo’ essere una giusta soluzione ma non basta, è assolutamente necessario ripensare e ridisegnare le aziende facendo della cultura, dei valori e dell’umanità la chiave di volta su cui costruire l’impresa del futuro.
SZ